Molti probabilmente non se lo ricorderanno, ma agli albori della sua carriera come maratoneta, qualche hanno prima che diventasse il primo uomo a correre quarantadue chilometri in meno di due ore, Eliud Kipchoge era stato tradito dalle sue scarpe. Un prototipo di Nike Streak 6, che fece abbastanza scalpore, perché visivamente “difettoso”.
Kipchoge stava correndo la maratona di Berlino del 2015, cercando di battere il record di 2h02’57”, che proprio l’anno precedente Denis Kimetto aveva stabilito nella capitale tedesca, quando improvvisamente, a metà gara, le solette interne delle sue Nike avevano iniziato a fuoriuscire dalla tomaia.
Le super scarpe erano ancora un miraggio. I primi prototipi di ZoomFly e Vaporfly si sarebbero visti solo a distanza di un anno. Le piastre in fibra di carbonio non erano ancora state sdoganate e Nike aveva appena lanciato diversi modelli di scarpe da running “light” con tomaia in flyknit.
Un contrattempo che non aveva fermato Kipchoge, corso verso il traguardo in 2h04’01″, ma sicuramente frenato dalle scarpe e arrivato a fine gara con piedi doloranti e vesciche (e, nonostante tutto, definite come le migliori che avesse mai usato). Era stato proprio lui a mostrarle ai fotografi sdraiati a terra per immortalare il momento, spiegando che non aveva potuto estrarre le solette – con la scritta Berlin Marathon in evidenza – per non perdere il ritmo, ma soffrendo per tutta la gara, orgoglioso del risultato e per le condizioni in cui era stato ottenuto, promettendo che sarebbe tornato per realizzare il nuovo record del mondo. Parola mantenuta abbassando il primato mondiale di maratona a 2h01’39” nel 2018 proprio a Berlino.
Ma cos’è successo a quel prototipo di Streak 6 indossato da Kipchoge? Nike non ha mai dichiarato quali fossero state le problematiche che hanno portato il campione kenyano a correre metà maratona con le solette che fuoriuscivano dalla scarpa e, fortunatamente, non è più risuccesso.

All’epoca il brand americano stava sviluppando tomaie molto traspiranti, ampie in avampiede, elastiche e realizzate con un unico filo e materiale, il flymesh. Le intersuole non erano ancora in Peba, ma in Eva lavorata (questo modello in particolare era in gomma Phylon, con capsule in Eva e una primordiale piastra in Pebax infusa) e un’unità Air Zoom nel tallone.
Non essendo ancora arrivata l’era delle super scarpe come oggi le conosciamo, la soletta interna delle scarpe da running contribuiva in percentuale molto più alta rispetto a quelle attuali a fornire ammortizzazione al piede degli atleti. Solette stampate con nuovi elastomeri, probabilmente non testate in modo adeguato, con un disegno inferiore pronunciato che, ad ogni passo, si è “aggrappato” alla tomaia della calzatura alzandosi sempre più, fino a fuori uscire. Un problema probabilmente dipeso anche dal tipo di appoggio di Kipchoge e dalla risposta della calzatura, che ha spinto molto in avampiede facendo scivolare il materiale, non grippante, verso il tallone. Una taglia non precisa, un’elasticità troppo alta della scarpa, una misura non perfetta della soletta potrebbero poi aver aiutato la non tenuta complessiva della calzatura.
Imprevisti che possono capitare anche ai migliori, come Nike e Kipchoge, che hanno però dimostrato con il tempio che una problematica può diventare un semplice tappa per diventare i numeri uno. Il resto è storia…